Sui
frammenti di icone di Tanina Cuccia
di Nicolò D’Alessandro
Tra le più note comunità storiche italo albanesi arbëreshë,
(arbereschi), insediatesi in Sicilia più di cinquecento anni
fa nel territorio palermitano ci sono Piana degli Albanesi, Hora e
Arbëreshëvet; la vicina Contessa Entellina, Kundisa; Santa
Cristina Gela, Sëndahstina; Mezzojuso, Palazzo Adriano (Palermo).
Non ultime nel territorio catanese le comunità di Biancavilla
e di San Michele di Ganzeria.
A Piana degli Albanesi assieme al pittore Pippo Bonanno, la moglie
italo albanese di Santa Cristina Gela e Francesco Carbone visitai,
alla metà degli anni ottanta, la rassegna d'arte varia Horartistike,
degli artisti locali con in mostra lavori di iconografia, mosaico,
pittura, scultura, grafica, fotografia e ricamo. In quella occasione
conobbi le impeccabili “icone su tavola” di Tanina Cuccia
assieme a quelle di Papàs Marku Sirchia, Zef Barone, Spiridione
Marino e Vita Masi. Nell’Oriente Cristiano l’icona riveste
un particolare valore poiché mostra il culto e la religiosità
della liturgia ortodossa. ?Si relaziona al divino non per rappresentare
il sacro, ma per collegare misticamente il divino all’umano.
L’Eparchia di Piana degli Albanesi, unicum in Sicilia, attraverso
la formazione degli iconografi contemporanei ha riproposto o meglio
rinnovato, negli ultimi trent’anni, la tradizione delle icone
che correva il rischio di scomparire.
“La prima volta che ho ammirato un’icona - scrive Tanina
Cuccia - è stato nel 1979 quando, nel laboratorio di restauro
dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, ho avuto l’opportunità
unica di seguire i lavori del prof. Placido Scandurra sulle antiche
icone dell’iconostasi di S. Nicola. Lì ho ammirato le
tavole tarlate, spaccate e bruciate, l’argento meccato, i palinsesti,
i tasselli di pulitura”.
Proprio in questo periodo di rinascita della cultura iconografica,
nasce l’artista che con sicurezza, dopo un lungo periodo di
riflessione e di maturata ricerca pittorica, affermerà: “le
mie opere non sono più contemplative di verità ma espressione
del dubbio e della coscienza della decadenza, non so se siano constatazione
della perdita del sacro o tentativo di recupero di esso”. Sono
un’arbëreshe, ovvero una italo-albanese appartenente ad
una comunità minoritaria albanofona e di rito bizantino, insediatasi
alla fine del XV secolo in Sicilia. Le mie opere sono cariche di riferimenti
bizantini, i soggetti sono legati al mondo dell’icona, ad un
mondo lontano popolato da santi guerrieri e creature angeliche che
si invera tramite un meticoloso lavoro pittorico che recupera antiche
tecniche come la tempera all’uovo o l’affresco ed allo
stesso tempo raccontano attraverso i tagli, le crepe, gli strappi,
i palinsesti e i forti contrasti materici, una realtà soggetta
alla disgregazione della materia ed ai suoi incontrollabili mutamenti.
Per questo non si può dire che io oggi dipinga icone”.
Per avvicinarci meglio al lavoro dell’artista credo possa essere
utile ricordare alcuni elementi che costituiscono le caratteristiche
basilari di tutte le icone. Nelle pitture su tavola, non c’è
ombra o chiaroscuro, poiché la luce, in quanto luce naturale
che non ha alcun valore, riflette soltanto i colori terreni. Il fondo
a foglia dorata, le linee, le sottolineature d’oro rappresentano
invece la luce sovrannaturale, la luce di Dio. Questo principio applicato
tradizionalmente nell’iconografia, dipende anche da un insegnamento
ortodosso, l’esicasmo, pratica ascetica alla ricerca della pace
interiore, in comunione con Dio, che si manifesta attraverso l’energia
divina sotto forma di luce, che non è quella naturale.
La prospettiva è ribaltata, le linee di fuga sono dirette in
senso inverso rispetto all’osservatore, per restituire l’impressione
che i personaggi rappresentati gli vengano incontro. Le figure non
sono mai dipinte di profilo se non per indicare i peccatori e non
esiste la tridimensionalità. Lo spazio è soltanto spirituale
ed è affidato all’intensità degli sguardi. L’”iconografo”
prende le mosse principalmente dal volto che deve indicare interiorità
e purezza. Gli occhi sono molto grandi, fissano malinconicamente l’osservatore.
La fronte è spaziosa, il naso allungato, la bocca piccola,
le labbra sono sottili, il mento è sfuggente, il collo ben
saldo. Un elemento importante è la simmetria, un centro ideale
ove tutto converge. Altra caratteristica basilare è la proporzione
delle figure e degli oggetti rappresentati, la cui grandezza manifesta
il valore delle persone o delle cose. La rappresentazione delle figure
non è di tipo naturalistico, ma simbolico. Ed il corpo, disegnato
con segni leggeri, è sottile, la testa è piccola, i
piedi sono minuscoli. La sua ieratica immobilità, la stilizzazione
e i paesaggi spesso appena accennati, sottolineano di contro una complessa
articolazione dei significati veicolati dall’icona e della sua
simbologia teologica. Nell’Oriente Cristiano l’icona riveste
un particolare valore poiché mostra il culto e la religiosità
della liturgia ortodossa. ?Si relaziona al divino non per rappresentare
il sacro, ma per collegare misticamente il divino all’umano.
Faccio
un passo indietro. Dopo oltre cinquant’anni dalla Mostra di
affreschi staccati al Forte Belvedere di Firenze, nel 1957, di Roberto
Longhi che per primo avvertì la necessità di raccontare
la secolare pratica del distacco delle pitture murali, è tutt’ora
in corso, al ?MAR Museo d’Arte della Città di Ravenna,
una straordinaria mostra L’incanto dell’affresco. Capolavori
strappati da Pompei a Giotto da Correggio a Tiepolo (16 febbraio-15
giugno 2014). Una straordinaria raccolta di affreschi recuperati e
trasferiti su supporti mobili dai masselli cinquecenteschi, agli strappi
e trasporti ottocenteschi sino alle sinopie staccate nel Novecento.
Sin dai tempi di Vitruvio e di Plinio risalgono le prime operazioni
di distacco, con la rimozione delle opere insieme a tutto l'intonaco
e il muro che le ospitava. Il cosiddetto "massello", che
favoriva il trasporto da un luogo ad un altro di dipinti altrimenti
inamovibili, favorendo altresì la conservazione di porzioni
di affreschi destinati ad essere perduti per sempre. In seguito sostituito,
dalla più pratica tecnica dello strappo, che con uno speciale
collante permetteva di trasportare gli affreschi su di una tela.
Avviata la cosiddetta "stagione estrattista degli stacchi"
e della "caccia alle sinopie", è stato possibile
salvare anche i disegni preparatori che i maestri tre-quattrocenteschi
avevano lasciato a modo di traccia sotto gli intonaci.
Queste brevi considerazioni, scaturite da una coincidenza temporale
di una mostra di affreschi strappi a Ravenna che si sta svolgendo
proprio in questi mesi, mi permettono di riflettere sul significato
diametralmente opposto che la mostra di Tanina Cuccia esprime. La
costruzione su “supporti mobili” degli affreschi “strappati”
viaggia su altri imprevedibili territori concettuali molto affascinanti.
L’impatto immediato con le opere recenti di Tanina Cuccia, esposte
in questa occasione tunisina, è di ritrovarsi di fronte ad
una esposizione di frammenti di opere del passato. Strappate con violenza
dalle loro sedi abituali, staccate dalle volte di chiese dimenticate
e sconsacrate, dalle pareti di cappelle che li accoglievano da secoli
per essere trasportati in luoghi più sicuri. Considerato il
numero dei frammenti, oltre l’ipotizzata volontà conservativa,
emergono allusive anche le presunte motivazioni collezionistiche della
nostra ordinatrice.
L’impaginazione appare come una documentazione repertoriale
del recupero di frammenti di una iconografia irripetibile ed incompleta
della cultura bizantina. Appare il tentativo di restituire alla memoria
affreschi perduti per sempre. Sono leggibili nei frammenti gli arcangeli
guerrieri, gli angeli decaduti, le annunciazioni, le vergini, i santi
guerrieri, i cavalli bardati, frammenti dell’Apocalisse ed altro
ancora. Ed apparirebbe, secondo la sottile intenzione dell’autrice
che, nella furia del recupero o del furto, il caso volesse che di
queste mutilazioni giungessero sino a noi soltanto i volti o alcuni
dettagli, (frammenti di cavalli, ali di angeli, tessuti accennati,
mani benedicenti, teorie di volti) fortemente indicativi di strutture
pittoriche complesse. Ma il sospetto che qualcosa non vada per il
giusto verso è il fascino di questa esposizione. Il fatto è
che i dettagli sono troppo credibili per essere veri. Ecco. L’ambiguità
che si determina, ad una più attenta lettura dei “frammenti”,
sostiene il gioco perverso del far credere autentico un lavoro intenzionalmente
costruito ad hoc, sulla base di una solida esperienza iconografica
e di una ancora più solida capacità tecnica. Tra il
vero e il verosimile è giocato l’intervento iconografico.
“L'opera, annota l’artista puntualmente, perde dunque
la sua funzione di oggetto legato al culto o alla denuncia di pratiche
non condivise o deridibili per diventare opera a se stante, opera
d'arte”. Ad una attenta analisi sulla “pittura”
ci si accorge che le “regole” non sono volutamente rispettate,
gli sguardi non sono malinconicamente rivolti verso la spettatore
come vuole la tradizione, ma si muovono spesso in altre direzioni.
Ed il colore non è piatto, esistono gli abili chiaroscuri e
le stesure coloristiche dichiaratamente di gusto pittorico a dichiarare
le intenzioni del fare pittura. Emergono toni e tonalità, campiture
di colori caldi assieme a foglie oro che non devono, in questo caso,
sottolineare la presenza di luci sovrannaturali, ma il sapore terreno
della sua brillantezza materiale. Ci troviamo pertanto di fronte non
a “frammenti di icone” ma a tavole sapientemente dipinte,
insomma, sostenute spesso da impasti terrosi e improvvisi segni grassi
e corposi di pastelli a olio. Le tracce e gli indizi sapientemente
scelti e disseminati nei “finti frammenti”, tra l’altro
inglobati ad hoc su supporti plastici, costituiscono la sfida dialettica
che l’artista italo albanese provoca consapevolmente. Appare
evidente che la sua ricerca muove dal sacro e che, nell’apparente
dissacrazione, nello stravolgimento dei rigidi canoni espressivi dell’iconografia
fondata sul misticismo bizantino, ci sia un’implicita denuncia
della perdita del sacro. Problema questo quanto mai attuale nella
società contemporanea che da molto tempo ha stravolto se non
perduto il senso profondo del sacro. Basterebbe soltanto questo aspetto
per restituire alla scelta di Tanina Cuccia il merito di una pittura
colta e in linea con le problematiche dell’arte di ricerca.
Palermo,
febbraio 2014